il diario di Andrea. 3. Massaua e oltre, 15-17 giugno. 30 luglio 2007 – cor-pus 267 [err. 273] – 630

Montag, 30. Jul, 2007 – 18:25:57

prosegue il diario eritreo di Andrea (le prime puntate qui sotto ai post n. 261 1 n. 263).

di nuovo, per chi vuole, una musica eritrea, per aiutarvi ad entrare nel clima del post (e del posto).

http://www.youtube.com/watch?v=xR0vCVDfrmU

si deve cliccare sul link col lato destro del mouse, aprirlo in nuova finestra ed abbassarlo nella barra dei comandi, prima di cominciare a leggere.

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Andrea    [Visitatore] 30.07.07 @ 10:10

Grazie per la foto della cattedrale, non so se Asmara fosse polverosa nel 1936.
Di sicuro è nelle memorie e nei percorsi di molte famiglie italiane, molte più di quante si immagini.
È stata una città gloriosa e curatissima, terra di lussi, lavoro e meritati svaghi.
Nel 1970 abitavano nella città ancora 60.000 italiani.
La parrucchiera Gina mi ha raccontato di quando, andata a Parigi a trovare un fratello emigrato, gli avesse chiesto della ragione di una lunga fila davanti a un cinema.
“Proiettano un nuovo film di grande successo: Il Dottor Zivago”.
Gina si meraviglió alquanto, perché quel film l’aveva visto ad Asmara, dove arrivavano di straforo le anteprime, con due mesi di anticipo.

Bortocal   30.07.07 @ 17:19
eh, sì, Andrea, quello che più mi colpisce di questo tuo diario africano, come ti dicevo stamattina al telefono, è quanto poca Africa vi sia dentro.
noto la differenza fra l’Addis Ababa di due anni fa, dove centinaia di persone lambivano sotto la fredda pioggia monsonica avvolte nei sacchi della spazzatura, e questa tua Asmara, quasi imbalsamata in una specie di film di Fellini al rallenti.
ma aspetto del tuo diario “quel che non si poteva dire”, e capirò meglio.
ciao.

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15 Giugno

Oggi pomeriggio dovremmo partire per le isole Dahlak, tanto decantate da Claudio, sono incerto sul da farsi perché dovremmo tenere una riunione, non so se i lavori finiranno in tempo e sono anche imbarazzato dal fatto di posporre una riunione per ragioni di semplice svago personale.
Mi toglie dall’imbarazzo Mimma, con un intervento garbato e preciso.
Sono comprensivi, posso partire oggi e pernottare a Massaua.

Anche se alle isole non serve nulla, alla fine lo zaino é pieno.
Partiamo con Giuseppe, fratello di Iob, il factotum della ditta.
Parla poco italiano e poco inglese, ma possiede una collezione di vecchie cassette italiane ormai mezze smagnetizzate dall’uso.
Cominciamo a uscire da Asmara, sono curioso.
In effetti appena ci si affaccia oltra il balcone dell?altopiano il paesaggio precipita in una serie di valli di grande suggestione.
La strada é ancora quella fatta dagli italiani, lo si capisce dai vecchi tralicci della luce e dai cippi miliari al bordo del tracciato.

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Piú che la strada colpisce la ferrovia che ogni tanto sbuca dal paesaggio e non si riesce proprio a capire come possa mantenere una pendenza accettabile, visto che i camion carichi che incontriamo lungo la strada in senso contrario arrancano lentamente e con molta fatica.
Non é raro trovarne fermi a bordo strada, in genere con una pozza d’acqua a terra in corrispondenza del radiatore e grossi sassi sotto le ruote a mo’ di fermo.
Altri sassi, messi a monte e a valle assolvono il compito del triangolo avvertendo del veicolo guasto.
L’avvertimento é perentorio, i sassi hanno dimensioni tali da non ammettere errore.
Il problema risiede nel fatto che, quando il camion riparte, i sassi vengono spesso lasciati sul luogo con conseguenze immaginabili.
Man mano che si scende la temperatura aumenta, passiamo accanto allo scheletro di un improbabile edificio termale costruito dagli italiani.
Nel giardino c’é ancora la fontana con le tubature e gli ugelli, tutt?attorno la steppa.
Dove avessero trovato l’acqua é un mistero, forse é quella che si ferma ad una fontana pubblica con una decina di rubinetti da cui ripartono donne e bambini carichi di pesanti taniche da cinque, dieci o venti litri, secondo l’etá e la statura del trasportatore.
A Ghinda ci fermiamo a bere qualcosa, il viaggio dura da due a tre ore.

Ghinda é la frontiera del sopportabile in materia di temperatura, le caldissime vampe della pianura arrivano fin qui, ma i mille metri di altitudine garantiscono ancora la respirabilitá.
Qualcuno non é in piena forma e si limita ad un the.
Ripartiamo, ultimo strappo verticale, poi la strada si srotola in pianura, tra caldo, polvere, acacie bruciate dal sole e letti di fiumi in secca.
Il ponte di Dogali e il monumento ai caduti italiani ricordano quanto il colonizzatore avesse preso alla leggera l’impresa militare, uno dei tanti rovesci militari che ancora oggi sono la perla dell’occidente quando gioca fuori casa.

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Quello che al ponte mi colpisce di piú é la pulizia del letto del fiume, nel quale non cresce neppure un filo di erba, cerco i ben conosciuti segni di piena e li trovo sulle acacie delle rive e sui piloni dei ponti, pezzi di legno incastrati a rispettabile altezza.
Considerata l’ampiezza del bacino a ventaglio e il fatto che i vari affluenti confluiscono per sommatoria in breve tratto, le piene debbono essere impressionanti.
Immagino anche che piú che acqua qui scenda una poltiglia liquida di terra e fango che in pochi minuti trasforma il letto secco in una furia devastante.
Mi stampo nella mente il paesaggio che cercheró di riprodurre con la matita sanguigna poi.

Infine Massaua in un caldo umido impietoso.
Mi piacerebbe cenare al Dancalo, ma alcuni stomaci stasera non sono all’altezza e ripieghiamo su un ristorante comunque decente.
Lucia cede, non ordina nulla e poco dopo riuscirá a liberarsi del peso; tornerá sorridente al suo posto, ma per oggi niente cena per lei.
Il gruppo si divide, alcuni piú provati rientrano in albergo, altri decidono per un giro nella cittá.
Descrivere Massaua la notte non é cosa facile, eccitante ed inquietante allo stesso tempo.
Se Asmara é europea, Massaua é il ponte tra Asia ed Africa, nulla accomuna le due cittá, almeno a prima vista.
Molte parti della cittá sono distrutte dai bombardamenti etiopici e dalla guerra che qui si é combattuta per strada.
Il palazzo del Governatore, la sede della banca d’Italia e il porto hanno avuto i danni piú gravi.
Il porto é ricostruito e funzionante, pur se il traffico é poca cosa rispetto a quello che doveva esserci negli anni ’70.
Gli altri edifici sono transennati e sono in attesa di interventi che per ora non sono possibili, l?Eritrea ha altre prioritá.
Qualche bar é aperto, ma la cittá nel complesso é buia.
Nell’ombra dei vicoli si vedono i letti portati in strada per cercare un minimo di refrigerio per dormire.
Quasi tutti dormono fuori, il caldo, il silenzio e la calma pesano anche sui movimenti.
Un bellissimo bovindo turco che era l’attrazione della piazza anche per la sua statica ormai improbabile ha superato il limite delle leggi fisiche ed é crollato, sapró poi che é in restauro.
Piu avanziamo e piú i vicoli si fanno spettrali, le case non crollate sono comunque abitate e qualche luce fioca filtra dalle porte aperte.
Le ingiurie della guerra mettono a nudo le strutture delle case e si riconosce il legno e pietra delle costruzioni turche dal cemento e gusto turchesco degli edifici dell?epoca italiana.
Camminiamo tra i letti e nel buio veniamo salutati da un sonoro “buonasera” di una signora che ancora parla un po’ di italiano.
L’ambiente é esattamente quello disegnato da Pratt nei fumetti di Corto maltese.

Risaliamo lungo il porto dove piú evidente é l’impronta italiana delle costruzioni, pur arrangiata alla turca.
Beviamo qualcosa in un locale molto grande al primo piano di una casa, il proprietario forse é un oriundo italiano, o un meticcio, come si definiscono ancora, ignorando il sapore vagamente razziale del termine.
La casa é sorprendente, grandi saloni con pavimenti di piastrelle a disegni geometrici e floreali ne rivelano l’etá e l’origine italiana.
Il clima é delizioso e riesco a capire cosa sia il contenuto dello Zibib, parola araba che peró non trova d’accordo il contenuto giallognolo del vino siciliano con quello trasparente delle bottiglie di qui. Si tratta di una variante del Pastis o dell’Ouzo, un buon liquore all’anice.
Per tutto il centro storico, che non supera comunque il mezzo chilometro di diametro c’è un eccellente silenzio, solo nei pressi dell’Hotel Torino dalla terrazza scende una musica assordante.
Massaua fino allo scorso anno era un centro dalla vita serale e notturna vivace e colorata, poi rimesso in riga dalle autoritá locali.
La musica é una novitá, pare.
Saliamo sulla terrazza dove é stata allestita una parvenza di discoteca e dove due casse monumentali lobotomizzano chiunque abbia la sventura di passarci in mezzo.
Parlare é impossibile, tanto vale ballare, siamo gli unici.
In breve arrivano gruppetti di ragazzi, deve essersi sparsa la voce che ci sono le turiste. In realtá sono molto garbati e misurati, uno di loro ringrazia Daniela alla fine del ballo.
Traspiriamo l’inimmaginabile e diamo fondo alle energie residue, domani colazione alle sette.

In camera ho dimenticato il condizionatore al massimo e fa un freddo pinguino, comunque avevo dimenticato fuori la bottiglia dell’acqua che si é rinfrescata.
Il frigorifero é rotto, quindi poco male.
Spengo l’infernale apparecchio che oltretutto fa un rumore assordante e me ne vado a dormire.

16 giugno

A quanto pare sono tutti in forma stamani; a colazione i tempi a cui a fatica mi ero abituato ad Asmara sono ancora piú rallentati dal caldo che giá alle sette é impietoso.
La banchina del Diving é un forno, carichiamo le barche alla svelta e partiamo.

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Essere sul mare mi fa una strana impressione, é passato davvero molto tempo dall’ultima volta.
All’uscita dal porto, ormai quasi indistinta dal paesaggio marino emerge il relitto di una nave affondata durante la seconda guerra mondiale.
Della nave resta solo lo scafo arrugginito e corroso in maniera passante, mentre tutte le sovrastrutture ed il metallo utilizzabile é stato smontato da decenni.
Piú recente é invece la nave incagliata nel Rif vicino all’Isola Verde, un premio al capitano, deve aver fatto una strage di coralli senza precedenti.

L’Isola Verde spicca per la sua vegetazione di mangrovie, per una vecchia moschea e per una lingua di sabbia con qualche ombrellone fisso di paglia.
Dobbiamo ancora registrarci in uscita dal porto, poi finalmente abbiamo via libera per le isole, un’ora di navigazione verso Nord-Est.
Dahret é un fazzoletto disabitato che raggiunge a stento il chilometro e mezzo di perimetro.
Non c’é neppure un albero, solo vegetazione bassa e una quantitá impressionante di Sterne e Droma, gli elegantissimi uccelli che Giuseppe, professore di scienze al liceo, infastidisce da anni per ragioni di studio.
Recuperare le bottiglie d’acqua potabile e fare il bagno nel mare turchese striato di blu sono le nostre prime preoccupazioni, ancor prima di montare i tendoni, oggetti vitali in questa isola.
Il Rif attorno all’isola é molto bello, per me poi, che ho usato la maschera solo da ragazzo nel Mediterraneo, é uno spettacolo assoluto.
Piccoli pesci blu nuotano pronti a tuffarsi tra i rami di corallo per nascondersi dai pericoli; pesci pappagallo colorati staccano a morsi precisi pezzi durissimi di corallo; pesci piatti color giallo limone e nero pece con lunghe pinne becchettano il rif.
Dove la barriera corallina sprofonda, tra le asperitá della parete nuota qualche grossa cernia.
Incontro anche qualche grossa conchiglia bivalve e, nascosta sotto un grosso corallo bianco, una piccola razza dai riflessi bluastri.
Su tutto domina il corallo, in maggioranza bianco, che costituisce la sostanza delle isole.

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I marinai del motoscafo hanno intanto montato il tendone e ci prepariamo al pranzo.
Il caldo é forte e non ci accorgiamo quanta acqua stiamo bevendo.
Non se ne puó fare a meno.
In attesa di pescare il pranzo é costituito da torte, insalate ed altro portate da casa.
La temperatura sale ancora, il sole é al massimo.
Ci si alterna tra bagni, riposo e piccoli giri.
Giuseppe e Giorgio hanno montato le attrezzature per filmare i nidi sotterranei dei droma.
Faccio il giro dell’isola e a fatica supero il tratto sottovento, dove il caldo e l’assenza di vento mi fa girare la testa.
Al pomeriggio un gruppo parte a pesca, torneranno con alcune belle cernie; senza pesce qui non si cena.
La giornata scende e la temperatura torna sopportabile anche fuori dal tendone.
A cena metá delle cernie finiscono arrostite, l’altra metá, tagliate a pezzi piccoli, dopo un lungo bagno nel limone vengono consumate crude.
Buonissime.
Si chiacchera a gruppetti, la serata si diluisce.
Per ultimo parlo un po’ con Federica, contiamo qualche stella cadente.
Il cielo non é limpido per via dell’umiditá, anche la Croce del Sud, bassa sull’orizzonte, scompare quasi subito nella foschia notturna.
Cerco un angolo riparato dal vento e dai paguri per la notte.

17 Giugno

Sono l’ultimo ad alzarmi, la luce é grigia, la foschia avvolge ancora tutto alle otto di mattina.
Prendo le matite e cerco di delineare la luce prima che cambi, in parte sono soddisfatto.
Tra stiracchiamenti, caffé e qualche bagno il ritmo riprende, complice il sole che incomincia a farsi vedere e in breve a martellare implacabilmente.
Constatiamo una drastica riduzione delle scorte d’acqua; non si capisce se siano state acquistate meno bottiglie di quanto chiesto o se ne abbiamo consumata tanta.
Un gruppo si fermerá anche domani e necessita di una scorta sufficiente.
Giuseppe e Giorgio mostrano il risultato del loro appostamento notturno.
Dopo aver calato in un buco una piccola telecamera sono riusciti a filmare la cova dei loro amati Droma.
Niente male.

Partiamo con le barche: un gruppo va ad una vicina isola abitata e uno a pescare.

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Il gruppo delle isole non tornerá particolarmente entusiasta.
Caldo, deserto, qualche capanna, due cannoni italiani abbandonati dagli anni ’40.
Per la pesca le cose vanno meglio, a parte il fatto che gli ami continuano ad incastrarsi nel corallo e bisogna scendere a nuoto per liberarli.
Qualche grossa cernia e una bella nuotata in un rif ancor piú colorato sono il bottino della tarda mattinata.
Alle due dobbiamo rientrare, il pranzo si prepara velocemente, il tempo per un ultimo bagno e dovremo risalire nelle barche in direzione di Massaua.

Dobbiamo fare i conti delle spese, quelli che in genere non tornano mai.
Intanto la questione dell’acqua si fa preoccupante.
Ne resta davvero poca, oltre ad una discreta scorta di birra, non il massimo in questo caso.
Saranno proprio i conti a farci perdere del tempo.
La prima versione é errata, mancano 2000 Nakfa, il corrispondente di 100 Euro.
Si riparte, sul tavolo circolano diverse versioni.
Ognuno dice la sua, nessuno riesce a finire un ragionamento e viene interrotto a metá.
Le versioni si accavallano, si arriva a risultati diversi, tutti in negativo rispetto alla cifra raccolta.
I medici che sono con noi stanno a guardare per un po’ il circolo che calcola senza successo.
Poi intervengono con calma e chirurgico rigore.
Chi interrompe viene zittito.
Alla fine avanzano 2000 Nakfa , esattamente quello che prima mancava, ma nessuno ha messo un centesimo in piú.
I conti ora tornano, chi faceva i conti si vergogna.
Partiamo.

La prima tappa a Massaua é un bar, siamo in debito di acqua e liquidi.
Arriviamo ad Asmara col buio, una doccia si impone.

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