wordpress martedì 13 aprile 2010 – 6:41
l’alba scenografica di Kanyakumari da godersi dal terrazzino dell’hotel rivolto obliquamente verso il mare e verso il borgo originario con le case colorate dei pescatori è finita.
sono tornato a letto, ma la mia mente è inquieta.
non so perché, ho il bisogno irresistibile di fermarmi un paio d’ore per scrivere quello che sento che sarà il romanzo della mia vita.
è un giallo inquietante. dopo un avvio di ispirazione netta e definita, lo proseguirò alla sera, sempre più faticosamente: non sembra più così urgente, oppure tutto è già stato detto.
trovo molto meglio uscire nel sole, infatti.
eccomi in una luce irreale e meravigliosa fra i colori del Tamil Nadu, di fronte ad un mare di un blu che sembra poter essere solo pensato, in mezzo alla sporcizia, alle voci, al fascino per me invincibile di una vita in pace.
* * *
I
„oh efferata barbarie, tu sei la sola ripugnante condizione adatta alla vera natura dell’animo umano e a te noi presto quindi ritorneremo“.
la finestra aperta verso un’alba sul mare gli rimandava le strida forse di un maiale che veniva ucciso per festeggiare il Natale; da poco del resto erano finite le puerili ed insensate litanie mariane che gli altoparlanti, indifferenti ad ogni senso del ridicolo, avevano imposto a quel paesaggio di cornacchie, di chicchirichi’ dei galli e di cani uggiolanti sotto percosse che salutavano la nuova giornata indiana.
e fu a questo punto che l’autore sentì il suo corpo scivolare sotto il letto, o per dir meglio accennare ad un movimento di scivolamento sotto il letto, perché poi fu come se le sua mente riprendesse il proprio autocontrollo come dopo un momento di ben altro scivolamento nel dormiveglia inquieto di una fantasia da sogno, e si ritrovò ben saldo al centro di quel grande e comodo letto a due piazze affacciato sul mare.
però inquieto: sentiva infatti, come per una percezione extrasensoriale anche troppo netta, che poteva essere terribilmente vero che il suo corpo fosse in realtà dove aveva immaginato di andare.
in preda ad una angoscia tranquilla, perché da tempo abituato all’idea che la realtà non sia altro che la somma dei nostri incubi materializzati, osò sollevare il lenzuolo che pendeva sfatto oltre il materasso, col sogghigno interiore di chi sapeva di sollevare un lenzuolo funebre.
ed ecco appunto emergere, come una fantasia notturna, dei capelli grigi arruffati e impregnati del sudore di una silenziosa agonia, che si era consumata evidentemente a sua parziale insaputa, e di cui prendeva atto solo per lo sconcertante anche se in fondo banale risultato: il pallore cadaverico delle tempie.
del resto l’elemento saliente di quella visione era poi ben altro: che la forma di quella testa, l’attaccatura caratteristica dei capelli e soprattutto lo strazio delle due larghe cicatrici senza bulbi capilliferi ai due lati non lasciavano alcun dubbio possibile sul fatto che quella fosse proprio la sua: non aveva mai conosciuto nessuno infatti la cui nascita fosse stata così lacerante da lasciare (oltre al banale ombelico di tutti) due segni a vita per sempre sul cranio, ben visibili al mondo, di un passaggio cruciale e già quasi mortale, uno stigma leopardiano sotto forma di bianca superficie di epidermide increspata: „è funesto a chi nasce il dì natale“.
affacciandosi, ancora disteso nel letto, con la testa rivolta verso il basso, a quella penombra appena mascherata dal lenzuolo, dunque era come se si fosse rivolto ad uno specchio?
ma se lui era lì sotto il letto, quell’altro lui sopra lo specchio, pardon, sopra il letto, chi era?
fu a questo punto che stolidamente si buttò al bagno, per mettersi davanti a uno specchio vero, incredulo di ritrovarvi per fortuna la sua faccia segnata dagli anni, ma a parte questo assolutamente intatta, solo come desiderosa di riprendere un sonno troppo presto interrotto, per cancellare quella che non poteva essere che una allucinazione troppo viva.
ed invece, rientrando in camera, ecco un piede beffardo e bianchissimo che sporgeva da sotto l’altro lato, ad indicare che quel cadavere, che altro non era che il suo, giaceva obliquo sotto il letto a due piazze.
il panico si impadronì di lui a questo punto: aveva avuto delle fantasie di morte, poco prima: era stato assalito di colpo da quell’angosciosa evidenza del fatto che sarebbe morto, che aveva cercato di dominare raffigurandosi la realtà di un mondo senza di lui, dove i suoi affetti avrebbero continuato a vivere dimenticandolo, come giusto, solo per andare incontro a quello stesso loro destino.
ora, era possibile che quell’intuizione angosciosa della propria mortalità, anziché diventare un racconto o una poesia, fosse diventata un corpo?
oppure proprio questo era l’enigma della morte? che, come immaginato già nel sepolto vivo di Poe o nel vivo completamente paralizzato di Hitchcock che tutti ritengono morto, mentre invece è cosciente e si dispera, la morte sia un semplice recita per gli altri, ma noi restiamo incatenati in eterno alla nostra coscienza immortale?
che sorriso beffardo: proprio in India pensare queste cose! proprio dove non si potevano confondere per universali gli incubi particolari della cultura occidentale.
no no, aveva controllato il proprio polso il respiro: perfettamente regolari, dopo una piccola accelerazione iniziale; ben vivo, aveva del resto meccanicamente riacceso il ventilatore, prima che la vampa del giorno riprendesse a farsi sentire, e si era ributtato sul letto, solo sull’altro lato, come per rispetto a quel corpo cui non voleva sovrapporsi.
provò a chiudere gli occhi di nuovo, fosse mai riuscito a riaddormentarsi certamente al risveglio non si sarebbe nemmeno piu’ ricordato di questo stranissimo sogno.
II
non si può dire fosse riuscito propriamente a dormire, ogni volta che era giunto sulla soglia dello smemoramento di sé lo aveva trattenuto una specie di coscienza del fatto che lui giaceva, già completamente smemorato, proprio lì sotto.
e quindi i pensieri confusi che lo agitavano, potevano certamente aggrovigliarsi sempre di più fino a formare quell’arruffo indistinto che è assieme la somma di tutti i pensieri, ma anche nessun pensiero definito, e quindi precede quella perdita del sentiero dei pensieri che chiamiamo sonno, e potremmo anche chiamare semplicemente morte, se l’evidenza non ci dicesse che la sospensione del pensare che avviene nella morte è più completa e definitiva.
ma sulla soglia dell’abbandono alla perdita provvisoria e pressoché quotidiana di noi stessi che ci è necessaria per sopravvivere, quei pensieri riprendevano forma e parola, per dirgli:
. . .
Kanyakumari, 18 dicembre 2009
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