2009-08-28 – 07:09:58
il post, pubblicato in questa data, risulta però scritto, nella sua seconda parte, in una data non ben precisabile dopo il 18 agosto (con la parte finale certamente dopo il 10 settembre); continuo a mantenere oramai la corrispondenza della pubblicazione con la data a cui si riferiscono i fatti raccontati, e per questo la anticipo.
* * *
ovviamente non è così, e quell’insano proposito di non visitare il Taj Mahal, frutto di una giornata in cui effettivamente ho cominciato a sentirmi solo, ma dev’essere l’effetto dell’idea del rientro, viene accantonato, dopo che effettivamente sono tornato la mattina a far colazione spaparanchiato nella famosa terrazza per vedermi il monumento dall’alto e bermi un lassi (lo yogurt indiano) tanto acquoso e diluito quanto assurdamente gonfiato nel prezzo.
attorno brulica un quartiere famelico pieno di souvenir e di venditori che ti assalgono, ma è veloce arrivare al recinto, pagare lo stratosferico biglietto, varcare il portale immenso e abbandonare la realtà.
* * *
il Taj Mahal tutti noi occidentali lo vediamo ridotto su due dimensioni e dall’interno del recinto immenso che lo circonda, e che è fatto di altri edifici rossi, con portali immensi, portichetti, cupolette e quant’altro basterebbe a meritare una visita.
sotto di uno di questi porticati, fra l’altro, sta finalmente una mostra STORICA della architettura indiana, che mi permette finalmente di cominciare a farmene una idea diacronica un po’ più precisa: e seguo questa mostra abbastanza a lungo, ma come per riprendermi dall’emozione che mi ha preso.
mi scuso se sembrerò e forse anche semplicemente sono convenzionale, ma per valutare il Taj Mahal occorre vederlo, o meglio viverlo.
vi sono arti che sono prevalentemente diacroniche, che vivono nel tempo, come la narrativa, la poesia epica, il cinema o il teatro e la musica; e vi sono arti che sono prevalentemente sincroniche, come la pittura, la fotografia o la poesia lirica.
ora la traduzione di una architettura in fotografia non è semplicemente il passaggio da un’arte ad un’altra, ma addirittura da un tipo di arte all’altra.
eh già, perché anche l’architettura è prevalentemente un’arte diacronica: l’edificio non lo cogli nello sguardo di un attimo, lo respiri e lo attraversi nel movimento dentro lo spazio, o meglio dentro lo spazio tempo.
sì, un’opera architettonica è un certo modo di raccontare lo spazio, e si è mai visto che si riesca a tradurre pienamente un romanzo in una fotografia?
quindi, anche io mi sono accorto che non conoscevo il Taj Mahal, ma solo una sua particolare impressione istantanea.
ho camminato il Taj Mahal, ho ascoltato il suo modo di raccontarmi come vedeva il mondo, ho respirato la sua sublime indifferenza alla morte.
è difficile concepire una esperienza di perfezione assoluta più forte del Taj Mahal: onestamente non trovo termini di paragone con nessun’altra opera architettonica.
il Taj Mahal è una tomba, ma la morte di cui parla non è una morte umana, è una morte disumana, se si potesse dire così.
il Taj Mahal non è la tomba di una donna mortale, come può essere la toccante tomba del Canova che si trova a Vienna e che rappresenta una giovane donna nell’attimo di immergersi nel buio della grotta che le farà da sepolcro in un accenno di sguardo volto all’indietro: uno sguardo già spento e vuoto.
nel Taj Mahal sta sepolta una dea, passatemi l’ossimoro.
così irraggiungibile da essere sottratta alle banali folle che ridacchiano senza consapevolezza davanti al suo sarcofago: ma la sua vera tomba è altrove, nel sotterraneo.
* * *
in questo buio hai un pensiero solo
in cui devi stare concentrata, Mahal,
per sottrarti alla tentazione della luce:
la consapevolezza di essere morta.
ti dimenticassi per un istante solo
questo tuo dovere di risultare assente,
volerebbe la tua mente ancora respirando
tra i fantasmi che chiamiamo esseri vivi.
nello spazio tempo immobile che ti rinchiude
in un vuoto che non ha storia né sentimenti più,
le voci che grattano la pelle del tuo silenzio
hanno in sé un orrore che ti trattiene qui.
ancora più convinta, sotto le volte candide,
che sono pura luce e chiudono la luce,
fra simmetrie che sbocciano solo nell’irrealtà:
niente è meno vivo dell’assurda vita.
* * *
insomma, fatico a trovare il modo giusto per dirlo: ma nel Taj Mahal sta scritta una verità assurda, ma vera, e cioè che l’unica vera morte è la divinizzazione.
e l’imperatore marito che, dimentico dei 14 figli già nati, dedicò il resto della vita a costruire questo mausoleo di perla per la sua adorata fu l’unico che l’uccise veramente.
se per caso c’è qualcosa di vero nella leggenda che, ad opera conclusa, il Gran Mogul chiamò l’architetto che l’aveva ideata e lo fece ammazzare perché non potesse ripetere altri capolavori, questa è una versione attenuata della vera motivazione, che è quella che vi do io.
all’architetto fu impedito di dire che il vero omicidio di Mumtaz Mahal era la sua tomba e che il segreto di una bellezza assolutamente insopportabile come quella è che essa rappresentava la morte per quello che veramente è: in tutto il suo splendore.
* * *
2009.08.17
caro Jörg,
non ci sentiamo da un pezzo, da quando non sono riuscito a fare niente per te e per i tuoi problemi di lavoro.
il blog mi ricorda che sta per arrivare il tuo compleanno, ed e’una buona occasione per un saluto, che ti mando dall’India, dove sto per uno dei miei viaggi di misticismo carnale.
un abbraccio e spero di risentirti presto.
2009.09.10
Misticismo carnale?
caro Mauro, ma che mi combini?
beh almeno stai bene e questo mi fa piacere…
io da un continente all’altro ci sarebbe così tanto da raccontare magari mi rimetto a scrivere
un abbraccio
Jörg
caro Jörg,
sarebbe una novità molto bello ricevere una notifica da blogs.it che mi dice che c’è un tuo nuovo post, umido di stampa e di emozioni nel tuo blog.
spero che la cosa non ti sembri troppo sentimentale se ti dico che mi manca la tua scrittura, soprattutto perché so che è annidata da qualche parte e che basta snidarla da lì.
un abbraccio anche mio.
. . .
(era il 19 agosto il compleanno di Jörg, il quale – ancora pochi giorni – avrebbe scoperto il melanoma che lo avrebbe ucciso due anni dopo).
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